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mercoledì 1 febbraio 2012

Mangostano (Garcinia Mangostana): soltanto un frutto esotico oppure molto di più?

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martedì 7 giugno 2011

DIETE & diete.

Riporto integralmente l'articolo apparso su http://www.modusonline.it/33/inchiestacontinua.asp
L'evidenziazione del testo con vari colori è opera mia.



Marina Armellini, dietista presso la struttura di Nutrizione Clinica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Udine.
Puntare tutto sul verde
Sempre più persone sono tentate dagli stili alimentari alternativi: vegetariano, macrobiotico, bio... proposti da riviste, siti internet e personaggi famosi. Sono scelte radicali che riducono la varietà degli alimenti e non sempre mettono l’accento sull’introito di sale e calorie, ma alcune vanno nella direzione giusta, ammettono i diabetologi, purché...


Si stima che siano il 5% della popolazione italiana, forse di più. Sicuramente è in crescita il numero di persone in Italia che optano per stili alimentari ‘alternativi’: vegetariani, vegani, macrobiotici. Ed è ancora maggiore la quota di consumatori che sceglie alimenti ‘bio’ e guarda con curiosità alle proposte delle erboristerie e dei negozi specializzati in alimenti esotici. È una delle tante risposte che si dà una società sempre più conscia delle conseguenze che una alimentazione più o meno sana può avere sulla salute.
Qual è il giudizio dei diabetologi e degli esperti di alimentazione su queste nuove tendenze? Sono scelte adatte alla persona che ha il diabete o vuole prevenirlo? Qualche riserva c’è: «Nessuno stile alimentare ‘alternativo’ coincide pienamente con quello ritenuto ideale per la persona, in generale, e per la persona con diabete in particolare. Noi consigliamo un’alimentazione variata e moderata a base di tanti alimenti il più possibile sani», considera Salvatore Ponticello responsabile dell’Unità operativa di Diabetologia del Distretto di Gela in Sicilia, «le Linee guida raccomandano di mangiare più fibre, frutta, verdura e cereali integrali, di non eccedere con i grassi animali e di sostituire pesci e legumi alle carni rosse. In questo senso, quindi, una dieta vegetariana potrebbe anche avvicinarsi al nostro obiettivo».
Qualche convergenza quindi c’è «comunque l’alimentazione consigliata per la prevenzione delle malattie cardiovascolari (infarto del miocardio) e del diabete mellito di tipo 2 e la modifica dello stile di vita che ne consegue è stata ottenuta con metodi estremamente differenti da quelli degli stili alimentari alternativi», considera Davide Lauro, professore di Endocrinologia presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e titolare del Centro di Riferimento Diabete Tipo 2 della Fondazione Policlinico di Tor Vergata-Roma. «La terapia nutrizionale si basa su evidenze scientifiche, mentre le scelte alternative come le diete macrobiotiche e vegana etc. nascono da esigenze etiche o filosofiche».
Nazario Melchionda che da poco ha lasciato la direzione della Scuola di Specializzazione in Scienza dell’Alimentazione, indirizzo Nutrizione Clinica dell’Università di Bologna, concorda pienamente e rincara la dose.
«Spesso lo stile alimentare alternativo nasce da un’eccessiva fiducia nelle mode culturali, nelle informazioni non controllate che mischiano concetti scientificamente provati, come il ruolo negativo delle carni rosse nella genesi dei tumori all’intestino e il ruolo protettivo delle fibre, con altre informazioni colte qui e là». Occorre quindi sapere di più sui possibili riflessi metabolici di una ‘conversione’ dietetica ed è questo che Modus cerca di fare con questo articolo, passando in rassegna le opzioni più frequenti.



Davide Lauro, professore di Endocrinologia presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata.
Dieta macrobiotica.
La macrobiotica è uno stile di vita basato sull’equilibrio tra le forze antagoniste e complementari che, secondo le antiche teorie cinesi, governano l’Universo: lo ying e lo yang. È una concezione filosofica dell’alimentazione, più che salutistica in realtà, visto che è stata codificata nel novecento da un giapponese Nyoiti Sakurazawa, senza una valutazione dell’impatto sul metabolismo della persona. «Ovviamente non si tratta di una dieta valutata con rigoroso approccio scientifico e quindi non può essere verificato il potenziale effetto benefico», spiega Davide Lauro «dal punto di vista medico una dieta rigidamente macrobiotica è ricca di fibre e povera di grassi, ma assegna un ruolo molto importante al riso che, pur essendo un ottimo cereale, è costituito principalmente da amido ed è scarso di proteine e acidi grassi. L’utilizzo principale, quasi esclusivo, del riso nella dieta può avere degli effetti nocivi per la salute. Nella sua forma classica, inoltre, la dieta macrobiotica è molto ricca di sale, sostanza che come è noto aumenta la pressione arteriosa. Nella dieta macrobiotica sono assenti alcuni elementi cosiddetti ‘nobili’ che l’organismo non può sintetizzare, come gli aminoacidi essenziali, e che la persona deve assumere dal-l’esterno. Per esempio si potrebbe avere una carenza di calcio e di alcune vitamine». «Recentemente», continua Lauro, «si è avuta una rivisitazione del-la cucina macrobiotica con un introito maggiore di frutta e verdure. Questa dieta spesso definita ‘naturale’, ricca di fibre e povera di grassi, può essere accettata purché si tenga d’occhio la quantità di calorie che nell’approccio macrobiotico non è indicato».


Angela Albarosa Rivellese, docente di Medicina Interna presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università Federico II di Napoli.


Dieta vegana.
Il vegetarismo (detto anche vegetarianismo o vegetarianesimo) è una forma di alimentazione che esclude il consumo di alcuni o di tutti gli alimenti di origine animale, per motivi religiosi, etici (amore per gli animali), per le conseguenze che l’allevamento ha sull’ambiente, per igiene e, più recentemente, per motivi salutistici. Personaggi famosi dell’antichità come Pitagora e Plutarco, Seneca e Leonardo da Vinci o più recenti come Gandhi, hanno seguito questi principi. Lo scrittore Safran Foer e l’oncologo Umberto Veronesi oggi se ne fanno attivi portavoce. Dal punto di vista alimentare (c’è anche chi rifiuta di indossare capi d’abbigliamento o accessori prodotti con pelli o peli di animali) esistono diverse filosofie di comportamento.
La forma più radicale è quella cosiddetta vegana che esclude l’uso di prodotti di origine animale: carne e pesce, ma anche latte, latticini, uova e derivati compreso il miele. Tra le diete vegetariane, la vegana è l’unica che, se non seguita con particolare attenzione e se non ben pianificata, potrebbe determinare alcuni rischi per la salute. «Infatti, una alimentazione di questo tipo, abbastanza limitata, pur potendo associarsi a una riduzione del rischio cardiovascolare, può esporre l’organismo – se seguita per lungo tempo senza i dovuti accorgimenti – ad alcuni deficit alimentari, penso al ferro per esempio, al calcio e ad alcune vitamine che o non sono sufficientemente presenti in questa dieta o lo sono in forme più difficilmente assimilabili dall’organismo», spiega Angela Albarosa Rivellese, docente di Medicina Interna presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università Federico II di Napoli, «con possibili conseguenze quali ipovitaminosi, anemia da carenza di ferro, osteoporosi, specialmente per le donne in menopausa. In particolare nel bambino e negli adolescenti le diete vegane devono essere utilizzate con molta attenzione».



Dieta vegetale o vegetariana.
Per orientarsi nell’arcipelago delle diete ‘vegetali’ occorre tenere presente un principio: «lo stile alimentare vegetariano tanto più è ‘rigido’, tanto più espone chi lo segue a un aumento del rischio di una carenza delle proteine assunte con l’alimentazione. La dieta vegetariana prevede pochi grassi saturi e trans-saturi, un introito di fibre molto importante e questo può ridurre il rischio di patologia cardiovascolare e d’insorgenza del diabete di tipo 2», spiega Lauro.
«Recentemente l’Associazione dei dietisti americani ha dato la sua approvazione alle diete vegetariane indicando, da una parte, quali sono i benefici e, dall’altra, quali debbano essere gli accorgimenti da utilizzare per evitarne i possibili rischi», ricorda la Rivellese che ha presieduto il gruppo di studio sulla nutrizione della European Association for the Study of Diabetes.
«Uno degli aspetti più importanti delle diete vegetariane è il maggior consumo di fibre vegetali, che è senz’altro utile in quanto aumenta il senso di sazietà, ha effetti positivi sul sistema digerente e soprattutto aiuta la persona con diabete a ridurre il picco postprandiale della glicemia».
Tra le diete vegetariane, «alcune si assocerebbero ad un minor rischio di sviluppare diabete e obesità e in alcuni studi anche malattie cardiovascolari, ma è difficile capire in che misura questo effetto è dovuto alla dieta in sé o al fatto che le persone che seguono queste diete tendono ad avere, in generale, uno stile di vita più attento e salutare», ricorda la diabetologa di Napoli.


Non solo verde
Gli esperti intervistati da Modus non ritengono pienamente consigliabile una dieta rigidamente ‘verde’, «eliminare dalla propria alimentazione tutti i prodotti e sottoprodotti animali significa seguire una dieta carente in alcuni nutrienti ed è un po’ assurdo cercare una alimentazione naturale e poi dover andare in farmacia e assumere delle pillole per integrarla», sottolinea Marina Armellini, dietista presso la struttura di Nutrizione Clinica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Udine.
Le versioni più ampie delle diete vegetariane, come la dieta pesco-pollo-vegetariana, si avvicinano molto al modello di una alimentazione sana «perché alla riduzione dei grassi – in particolare di origine animale – e all’aumento di cereali integrali, legumi, verdura e frutta, si associa anche un minimo apporto di proteine di origine animale; se poi aggiungiamo un moderato ricorso al latte, specialmente se magro, siamo ancora più sicuri anche in relazione all’apporto di calcio», fa notare Angela Albarosa Rivellese.
Marina Armellini, forte della sua decennale esperienza di dialogo con persone che devono o vogliono modificare la loro alimentazione, si pone un problema diverso. «Davanti a una scelta alimentare rigida, quale che sia e per motivata che possa essere, dobbiamo pensare alla sua sostenibilità nel tempo. II diabete, il sovrappeso e lo scompenso metabolico sono condizioni croniche o di lunghissimo termine. Capisco che, convinta da una tesi o spaventata da una diagnosi, una persona faccia una scelta radicale, ma le sarà possibile rimanere coerente? E cosa succederà se il nuovo stile la stanca?». Una brava dietista o un bravo medico, se può evitarlo, non consiglia diete prefissate o mutamenti di rotta improvvisi nella alimentazione; «preferiamo lavorare all’interno delle preferenze alimentari del paziente».


Alimenti ‘bio’.
L’agricoltura biologica è un tipo di agricoltura che sfrutta la naturale fertilità del suolo facendo a meno dei fertilizzanti ‘chimici’, utilizza una grande varietà di sementi e non solo quelle che garantiscono una resa maggiore e tanto meno i semi geneticamente modificati.
L’agricoltore ‘bio’ limita molto il ricorso a prodotti chimici per debellare i parassiti e accetta che nei suoi campi siano presenti anche altre specie infestanti. L’allevamento bio utilizza mangimi tradizionali ed è realizzato in condizioni più simili possibili a quelle naturali.
I prodotti ‘bio’ sono sottoposti a una regolamentazione precisa il cui rispetto, verificato da apposite agenzie, permette ai prodotti di fregiarsi di un marchio. L’Italia è uno dei Paesi che maggiormente hanno adottato tecniche agricole e di allevamento ‘bio’.
Diverse ricerche hanno confermato come nei prodotti ‘bio’ siano maggiormente presenti sostanze antiossidanti naturali e meno presenti prodotti chimici. È difficile trovare un collegamento ‘sicuro’ fra l’alimentazione ‘bio’ e una minore incidenza di infarti, per esempio, o di tumori, «anche perché le persone che scelgono prodotti biologici nei supermercati hanno in genere una istruzione e una motivazione che le porta a fare altre scelte alimentari, ad avere uno stile di vita che invece hanno un effetto provato sulla salute», sottolinea Marina Armellini. I medici intervistati da Modus sono comunque favorevoli alla agricoltura biologica. «Pur in mancanza di prove scientifiche, un principio di prudenza ci fa pensare che il cibo più è naturale meno danni può arrecare. Introdurre nell’alimentazione una sostanza estranea alle nostre abitudini alimentari, o di sintesi, rappresenta sempre un potenziale rischio metabolico e tumorale», ricorda Lauro. «È difficile trovare un legame fra le sostanze potenzialmente contaminanti introdotte in una alimentazione ‘non biologica’ e il rischio cardiovascolare. Ci potrebbero essere conseguenze a livello tumorale ma questo tipo di rischi può essere dimostrato solo a lungo termine. Ad ogni modo io credo che, potendo, sarebbe meglio preferire le tecniche di coltivazione e allevamento che prevedono meno sostanze contaminanti», concorda la Rivellese.


Nazario Melchionda, dirige il Centro di prevenzione e cura per obesità, disturbi alimentari e metabolismo, a Bologna.


Colture e cultura.
Sulla stessa linea si pone la sempre maggiore attenzione verso gli alimenti freschi e vicini alla tradizione, «difficilmente una abitudine alimentare che si tramanda nei millenni può essere definita dannosa. Attenzione però a non ‘esportare’ tradizioni culinarie da un continente all’altro. Non è detto che la dieta di un contadino cinese o giapponese sia la migliore per il metabolismo di un europeo. Vediamo ogni giorno gli scompensi che il cambio di alimentazione porta nel metabolismo delle persone costrette a emigrare», ricorda Melchionda che attualmente dirige a Bologna il Centro di prevenzione e cura per obesità, disturbi alimentari e metabolismo.
Più che andare in cerca su internet della tradizione alimentare ‘di moda’ o frugare nelle erboristerie e nei negozi di nicchia, chi vuole mangiare bene potrebbe recarsi nelle bancarelle dei mercati o ricordare le ricette dei genitori e dei nonni. Melchionda è molto deciso: «quello alimentare è un gigantesco ‘falso problema’ creato dall’effetto concentrato di innumerevoli richiami pubblicitari, mode culturali e cattive informazioni, quasi sempre interessate. L’alimentazione è un business e questo vale sia per l’industria sia per le filiere ‘alternative’».
«Alla base del problema c’è il distacco fra la persona e la tradizione alimentare, la natura. La risposta quindi è semplicemente astrarsi da questi messaggi e tornare alla propria storia. Spontaneamente l’uomo si alimenta nella maniera migliore, l’evoluzione ci ha resi capaci di compiere da soli scelte corrette», ricorda Melchionda che dedica oggi la sua attenzione alla ‘gastronomia metabolica’, ovvero a una alimentazione che rivisita la tradizione gastronomica, sposandola con l’esigenza scientificamente provata di ridurre l’apporto di grassi saturi nell’alimentazione.


Salvatore Ponticello, responsabile dell’Unità Operativa di Diabetologia del Distretto di Gela in Sicilia.


Chilometri zero.
Il concetto di ‘Chilometro zero’ o ‘filiera corta’ converge con quello appena descritto, anche se deriva da una sensibilità ambientale più che salutistica. «che senso ha mangiare un frutto o una fetta di carne che ha percorso 10 mila chilometri per arrivare sulla nostra tavola, con tutti gli sprechi e i costi economici e ambientali del caso, quando un prodotto simile si trova magari a 10 chilometri di distanza?», si chiede Marina Armellini, membro del gruppo di studio diabete dell’ANDID (Associazione Nazionale Dietisti).
Premiare il prodotto ‘vicino a casa’ significa sostenere l’economia locale, promuovere varietà di sementi o specialità regionali, privilegiare il fresco al conservato, il particolare al prodotto standard.
La tendenza verso il consumo di alimenti a ‘chilometri zero’ prodotti nel territorio e quindi all'utilizzo di frutta e verdura di stagione, freschi o sottoposti a pochi trattamenti di conservazione mi trova concorde», ammette Lauro, «è vero che la tecnologia ha fatto notevoli progressi e non abbiamo prove per dire che il trasporto degli alimenti o le lavorazioni siano dannose per la salute. Ma è, comunque, possibile considerare i prodotti locali di stagione più salubri di altri prodotti sottoposti a differenti trattamenti». In Sicilia il concetto di ‘Chilometro zero’ è la prassi abituale. «Molti, anche fra coloro che vivono in città, hanno appezzamenti di terreno o parenti che coltivano un orto e sanno pure riconoscere il pesce buono. Nelle bancarelle e nei negozi trovi frutta e verdura raccolta il giorno stesso, spesso dalla stessa persona che la vende», spiega Ponticello.
Verdura e frutta di stagione quindi, a prezzi ‘stracciati’ come la definisce il diabetologo di Gela, «e lo stesso vale per il pesce, fresco, facilmente reperibile e a un prezzo concorrenziale rispetto alla carne che qui costa invece più o meno come a Palermo o Catania». I pazienti di Ponticello sono quindi portati dalla tradizione e dall’istinto a una dieta ricca di fibre, vitamine e povera di grassi saturi. «Il nostro problema sono i carboidrati, in particolare le porzioni», ricorda Ponticello, «si fa una vita sedentaria ma si mangiano le porzioni di pasta o pane che si vedevano in tavola quando si lavorava nei campi».

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Nota personale (di Michielli Lorenzo)
Consiglio, per allargare il campo di conoscenza, di informarsi sull'argomento NUTRACEUTICA.
Il succo di mangostano risponde a questa filosofia di vita, che comprende cibo ed emozioni.
Dispongo di materiale didattico audiovisivo (DVD) su tale argomento, prodotto con il contributo del dottor Giacconi Gianluigi di Udine, psicologo-naturopata.


Per richieste e info scrivere a mezzo email a lorenzo.michielli@poste.it
Consiglio la visita al blog "mangostinaitalia" (vedi).





Vino si, vino no. Cosa fare?

Riporto integralmente l'articolo apparso su http://www.modusonline.it/9/conoscere_continua.asp
L'evidenziazione del testo con vario colore di fondo è mia.




In vino salus
A dosi moderate il vino fa bene al cuore e aiuta alcuni pazienti diabetici. Detto in altro modo: non bere fa male al cuore.


"E mi raccomando, eh! Beva! Un bicchiere di vino rosso, meglio due, a ogni pasto". Probabilmente, in futuro, raccomandazioni di questo genere saranno rivolte dai medici a tutta la popolazione a rischio cardiovascolare, vale a dire praticamente a tutti. Non è un paradosso né una battuta.
"Negli ultimi dieci anni è stata raccolta un'impressionante mole di documentazione che ha stabilito senza ombra di dubbio che l'alcool in generale e il vino rosso in particolare, bevuti in quantità moderate, hanno una serie di effetti che si traducono in un minor rischio cardiovascolare. Detto in parole povere: meno infarti, meno ischemie e meno ictus", afferma Domenico Fedele, docente di Malattie del Metabolismo all'Università di Padova; "più recente è la scoperta di un effetto protettivo nei confronti dell'insulinoresistenza che caratterizza le forme iniziali del diabete".


Curva a U
Attenzione, però: questi effetti sono validi solo se l'alcool è assunto in quantità moderata. "Per quanto possa sembrare strano, chi non beve alcool rischia più di chi beve poco", continua Fedele "e questo vale per il cuore e perfino per i tumori. In compenso è stato confermato il fatto che chi beve troppo rischia davvero molto".
Cosa significa "poco" e "troppo"? Anche su questo esiste ormai un consenso. Se disegniamo su un grafico il consumo giornaliero ideale e la mortalità per infarti o per tumori, perfino per la cirrosi, otteniamo una curva a U. I valori sono più alti all'inizio per i non bevitori e alla fine per i bevitori forti: "L'intervallo ideale sembra essere tra i 15-20 e i 30 grammi di alcool al giorno", spiega Fedele, Responsabile dell'Unità Operativa di Diabetologia, Dietetica e Nutrizione clinica dell'Ospedale geriatrico di Padova. Per capire cosa significa bisogna fare alcuni calcoli.
In linea di massima un bicchiere di vino corrisponde a 10 grammi di alcool, tanto quanto una lattina di birra, ma in un bicchierino di grappa ce ne sono 20. E nei superalcolici, come il gin o la vodka, una volta e mezzo di più.
Fedele ama il vino (ha perfino un diploma di sommelier), ma è molto chiaro nel ricordare che quanto detto vale per gli alcolici bevuti a pasto. "Fuori pasto possono scompensare la glicemia in maniera seria, soprattutto, ma non solo, per chi è in terapia insulinica", afferma, sottolineando poi che "esistono chiaramente situazioni nelle quali l'assunzione di alcool va assolutamente proibita: tutte le malattie del fegato, per esempio, così come molte malattie gastroenteriche o disturbi psichici".


Paradosso francese
La scoperta degli effetti protettivi dell'alcool in generale e del vino rosso in particolare è nata dalla constatazione che la mortalità per infarti e ictus in Francia e Italia è inferiore a quella registrabile nei paesi anglosassoni. "Con un lavoro da detective sono state identificate tutte le possibili ragioni di questi dati ed è emerso che l'unica differenza tra gli "immortali" francesi e i loro equivalenti inglesi era la maggiore propensione dei primi a bere vino rosso, precisamente Bordeaux".
A quel punto sono state avviate delle ricerche per scoprire quale delle tante sostanze presenti nel vino "faccia bene al cuore". I vincitori sono stati l'alcool da una parte e alcuni polifenoli dall'altra



Questione di buccia
In pratica alcuni effetti sono indotti dall'alcool e sono quindi indipendenti dalla bevanda; altri invece sono specifici del vino e in questo caso sappiamo perché: dobbiamo ringraziare i polifenoli, in particolare il resvertarolo e la quercitina. Si tratta di sostanze antiossidanti che, soprattutto quando sono combinate ad altre sostanze contenute nella frutta e nella verdura, svolgono un'azione altamente protettiva per il cuore. Il resvertarolo è una sostanza attraverso la quale la pianta si difende da alcune malattie e la sua concentrazione è tanto minore quanto più l'uva è matura. Come tutti i polifenoli il resvetarolo si trova per la maggior parte nelle bucce, nei raspi e nei vinaccioli. È da qui che si può intuire il motivo per cui è il vino rosso a essere più ricco di sostanze benefiche per la salute. Le tecniche di vinificazione dei vini rossi prevedono, infatti, una fermentazione del mosto a contatto con le bucce. Al contrario, nei vini bianchi (molti prodotti anche da uve a bacca nera) le uve vengono pressate, diraspate e separate da bucce e raspi.
Un altro "plus" riscontrabile più frequentemente nei vini rossi è l'invecchiamento in legno, tecnica che viene utilizzata più di rado nelle tecniche enologiche dei vini bianchi: a giovarsi dell'affinamento in botte è la quercitina. Va inoltre ricordato che esistono differenze tra le diverse varietà di vitigni. Le uve che hanno maggior contenuto di polifenoli sono quelle utilizzate come base per i più grandi vini da invecchiamento che, non è un caso, proprio grazie a questa ricchezza, sono vini più longevi, capaci di resistere nel tempo e di evolversi al meglio nelle proprie caratteristiche organolettiche.

Effetti positivi
Il resvertarolo, che era noto anche alla medicina tradizionale cinese, riduce la colesterolemia e aumenta il colesterolo "buono" HDL, mentre la quercitina ha un'azione antiaggregante. Anche l'alcool ha un'azione antiaggregante, "ma evidentemente non basta, altrimenti non si spiegherebbe come i popoli bevitori di birra siano più a rischio di quelli bevitori di vino", nota Fedele.
"Resvertarolo e quercitina hanno un effetto antiossidante, riducono cioè la presenza di radicali liberi nelle arterie, e questa azione si dispiega soprattutto durante la digestione e soprattutto se combinata con una alimentazione ricca di verdure e frutta".
"Un fronte recente è lo studio degli effetti dell'alcool in generale e del vino rosso in particolare nel diabete", racconta Fedele; "è certo che l'alcool possa migliorare la sensibilità dei tessuti all'insulina, riducendo l'insulino-resistenza e si stanno valutando possibili effetti protettivi sulle betacellule". Su queste ultime però è certo che l'alcool a dosi non moderate ha chiari effetti tossici.
C'è poi da aprire il capitolo cancro. La prestigiosa rivista Science, commentando l'azione antimutagena del resvertarolo, lo ha definito un agente chemioprotettivo che rappresenta da solo una strada nuova nella ricerca sulla prevenzione del cancro.

Qualche precauzione
Esistono però anche alcune controindicazioni. A digiuno l'alcool inibisce temporaneamente la produzione degli zuccheri da parte del fegato, dunque chi usa insulina farà meglio a non bere fuori pasto. L'alcool va inoltre assolutamente evitato se al diabete si aggiungono malattie al fegato, allo stomaco, all'intestino o disturbi psichici.
"L'alcool è un nutriente", ricorda infine Fedele, ogni grammo equivale a sette calorie, una bottiglia a un pasto leggero. "Chi beve un bicchiere di vino deve rinunciare a una porzione di carboidrati, chi indulge a un grappino deve sacrificare qualcosa di più. Altrimenti, ciò che si guadagna bevendo lo si perde ingrassando". Ma se il vino è buono...ne vale la pena. Parola di diabetologo e di sommelier.

Riporto integralmente l'articolo apparso su http://www.modusonline.it/9/conoscere_continua.asp


Questione di buccia
In pratica alcuni effetti sono indotti dall'alcool e sono quindi indipendenti dalla bevanda; altri invece sono specifici del vino e in questo caso sappiamo perché: dobbiamo ringraziare i polifenoli, in particolare il resvertarolo e la quercitina. Si tratta di sostanze antiossidanti che, soprattutto quando sono combinate ad altre sostanze contenute nella frutta e nella verdura, svolgono un'azione altamente protettiva per il cuore. Il resvertarolo è una sostanza attraverso la quale la pianta si difende da alcune malattie e la sua concentrazione è tanto minore quanto più l'uva è matura. Come tutti i polifenoli il resvetarolo si trova per la maggior parte nelle bucce, nei raspi e nei vinaccioli. È da qui che si può intuire il motivo per cui è il vino rosso a essere più ricco di sostanze benefiche per la salute. Le tecniche di vinificazione dei vini rossi prevedono, infatti, una fermentazione del mosto a contatto con le bucce. Al contrario, nei vini bianchi (molti prodotti anche da uve a bacca nera) le uve vengono pressate, diraspate e separate da bucce e raspi.
Un altro "plus" riscontrabile più frequentemente nei vini rossi è l'invecchiamento in legno, tecnica che viene utilizzata più di rado nelle tecniche enologiche dei vini bianchi: a giovarsi dell'affinamento in botte è la quercitina. Va inoltre ricordato che esistono differenze tra le diverse varietà di vitigni. Le uve che hanno maggior contenuto di polifenoli sono quelle utilizzate come base per i più grandi vini da invecchiamento che, non è un caso, proprio grazie a questa ricchezza, sono vini più longevi, capaci di resistere nel tempo e di evolversi al meglio nelle proprie caratteristiche organolettiche.

Effetti positivi
Il resvertarolo, che era noto anche alla medicina tradizionale cinese, riduce la colesterolemia e aumenta il colesterolo "buono" HDL, mentre la quercitina ha un'azione antiaggregante. Anche l'alcool ha un'azione antiaggregante, "ma evidentemente non basta, altrimenti non si spiegherebbe come i popoli bevitori di birra siano più a rischio di quelli bevitori di vino", nota Fedele.
"Resvertarolo e quercitina hanno un effetto antiossidante, riducono cioè la presenza di radicali liberi nelle arterie, e questa azione si dispiega soprattutto durante la digestione e soprattutto se combinata con una alimentazione ricca di verdure e frutta".
"Un fronte recente è lo studio degli effetti dell'alcool in generale e del vino rosso in particolare nel diabete", racconta Fedele; "è certo che l'alcool possa migliorare la sensibilità dei tessuti all'insulina, riducendo l'insulino-resistenza e si stanno valutando possibili effetti protettivi sulle betacellule". Su queste ultime però è certo che l'alcool a dosi non moderate ha chiari effetti tossici.
C'è poi da aprire il capitolo cancro. La prestigiosa rivista Science, commentando l'azione antimutagena del resvertarolo, lo ha definito un agente chemioprotettivo che rappresenta da solo una strada nuova nella ricerca sulla prevenzione del cancro.

Qualche precauzione
Esistono però anche alcune controindicazioni. A digiuno l'alcool inibisce temporaneamente la produzione degli zuccheri da parte del fegato, dunque chi usa insulina farà meglio a non bere fuori pasto. L'alcool va inoltre assolutamente evitato se al diabete si aggiungono malattie al fegato, allo stomaco, all'intestino o disturbi psichici.
"L'alcool è un nutriente", ricorda infine Fedele, ogni grammo equivale a sette calorie, una bottiglia a un pasto leggero. "Chi beve un bicchiere di vino deve rinunciare a una porzione di carboidrati, chi indulge a un grappino deve sacrificare qualcosa di più. Altrimenti, ciò che si guadagna bevendo lo si perde ingrassando". Ma se il vino è buono...ne vale la pena. Parola di diabetologo e di sommelier.





Quando ingrassare diventa un problema.

Riporto integralmente l'articolo apparso su http://www.modusonline.it/35/sapere.asp



Ivana Rabbone, diabetologa presso la SCDU di Endocrinologia e Diabetologia pediatrica dell’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino
La conta dei carboidrati passo passo
Richiede un poco di impegno all’inizio ma presto diviene automatico e regala autonomia e libertà permettendo di affrontare ogni pasto o bevanda senza aumentare troppo la glicemia.


All’inizio lo si proponeva solo, o soprattutto, alle persone in terapia con microinfusore. «Ora il calcolo dei carboidrati è considerato importante, se non necessario, per tutte le persone che utilizzano insulina», esordisce Vincenzo Nicastro, diabetologo dell’Unità Operativa universitaria di Endocrinologia, Malattie del metabolismo e Diabetologia dell’Azienda ospedaliero-universitaria Ospedali Riuniti di Foggia, «indipendentemente dalla modalità di erogazione».
Il conteggio dei carboidrati, o ‘Cho counting’ in inglese, è una tecnica che permette di stabilire con una certa precisione quanti carboidrati sono presenti negli alimenti che si stanno per assumere «e quindi valutare la dose di insulina necessaria per ‘coprirli’ senza innalzare troppo la glicemia postprandiale», spiega Ivana Rabbone, pediatra diabetologa nel Centro di riferimento regionale di Diabetologia pediatrica del Piemonte.


Vincenzo Nicastro, diabetologo dell’Unità Operativa universitaria di Endocrinologia, Malattie del Metabolismo e Diabetologia dell’Azienda ospedaliero-universitaria Ospedali Riuniti di Foggia.
Dove stanno i carboidrati.
Il calcolo dei carboidrati è un metodo che permette di adeguare la terapia insulinica alla quantità di carboidrati assunti nel pasto. Il processo di apprendimento prevede diverse fasi: la prima consiste nel sapere quali alimenti contengono carboidrati; «le proteine e i grassi infatti, pur contenendo calorie, non contribuiscono a innalzare la glicemia in modo significativo, soprattutto nelle prime due ore dopo il pasto», ricorda Elisa Del Forno, dietista presso i quattro ambulatori di diabetologia distrettuali di Trieste, «è noto, almeno alle persone con diabete, che tutti i derivati delle farine e dei cereali sono ricchi di carboidrati (pasta, riso, gnocchi, pane, prodotti da forno, patate e polenta), ma spesso le persone che iniziano ad apprendere il ‘conteggio dei carboidrati’ non sanno che anche i legumi hanno un buon contenuto di carboidrati, così come il latte e lo yogurt alla frutta, mentre i formaggi no perché la stagionatura provoca il degrado degli zuccheri». Una delle difficoltà nell’insegnare questa fase del conteggio, «è la confusione che istintivamente si fa fra calorie e carboidrati. Gli alimenti ricchi di proteine e grassi, come le uova, le noci o le creme, non contengono carboidrati ma hanno molte calorie, insomma fanno ingrassare ma non influenzano la glicemia postprandiale, se assunti nelle giuste quantità. Viceversa, i corn flakes che consideriamo ‘salutari’, lo sono ma hanno un altissimo tenore di zuccheri», nota la Del Forno che collabora strettamente con l’Associazione diabetici di Trieste.


Alcol: un consumo misurato.
Un discorso a parte va fatto per le bevande. «Le bevande al gusto di frutta o alla frutta, e in generale i non alcolici, hanno tutte un’altissima quota di zuccheri aggiunti», elenca Elisa Del Forno, «più complessa la situazione per gli alcolici: un bicchiere di vino a pasto non influenza la glicemia; fuori pasto invece gli alcolici inducono il fegato a ridurre la fornitura ‘basale’ di glucosio all’organismo e possono provocare ipoglicemia. La birra ha un 3,5% di carboidrati: non è una percentuale alta, ma un bel boccale da 400 cl, come usa dalle nostre parti, può richiedere da solo un paio di unità di insulina».
Quando parla con dei giovani Elisa Del Forno si sofferma sui superalcolici, «sottolineiamo che è pericoloso eccedere con l’alcol ma sappiamo anche che il proibizionismo serve a poco. Spiego quindi con chiarezza come i cocktail alla frutta, come piña colada, o a base di coca cola, possono innalzare la glicemia, mentre quelli ‘secchi’ che contengono prevalentemente gin, vodka, o per esempio la caipirinha e perfino il mojito, la possono abbassare».

Gli alimenti complessi.
All’inizio è importante imparare quali alimenti contengono carboidrati: si impara a leggere le etichette alimentari e si usano le tabelle nutrizionali che riportano la percentuale di carboidrati nei principali cibi. In alcuni casi può essere una valutazione complessa perché è necessario conoscere i vari ingredienti del piatto che ci troviamo di fronte. «il caso tipico sono le lasagne, dove troviamo pasta ma anche ragù e besciamella che non influenzano la glicemia, oppure le minestre che sono composte di acqua ma anche di orzo, patate e legumi e possono arrivare ad avere il 40-50% di carboidrati», spiega la Del Forno, «ci sono anche degli alimenti trabocchetto come le crespelle, i ravioli e i secondi impanati. Se una fetta di carne non ha carboidrati, la stessa fetta impanata ne ha una quota non trascurabile, non parliamo poi dei bastoncini di pesce surgelati, nei quali l’impanatura rappresenta una quota significativa del peso».



Ambra Morelli, dietista presso il Servizio di dietetica e nutrizione clinica dell’Ospedale San Carlo di Paderno Dugnano in provincia di Milano

Un po’ di fatica per poter affrontare il diabete con più libertà.
Valuta la porzione.
Il secondo passo consiste nel valutare il peso delle porzioni degli alimenti che contengono carboidrati. «In questo sono favorite le persone abituate a cucinare o che per lavoro si occupano di alimenti», nota Ambra Morelli, responsabile del Servizio di dietetica e nutrizione clinica dell’Ospedale San Carlo di Paderno Dugnano, in provincia di Milano. «Chiediamo alle persone che seguono i nostri corsi di ‘allenarsi’ a casa perché, essere i più precisi possibile in questo passaggio, è fondamentale». All’inizio è necessario usare la bilancia per pesare a crudo gli alimenti.
«Se non si è stati allenati a farlo valutare ‘a occhio’, il peso di un alimento non è facile. Per questo consigliamo di aiutarsi utilizzando unità di misura di volume come una tazza o un cucchiaio e unità improprie come la mano», afferma la Morelli. La mano serve per valutare il volume ma anche, con un poco di pratica, il peso, ad esempio, di un frutto. Con un poco di pratica si arriva a stimare con una certa precisione buona parte degli alimenti più frequenti, «i manuali che contengono immagini di cibi e bevande con a fianco il peso sono di grande aiuto per fare esercizio e per stimare i piatti più complessi e meno abituali», nota Ambra Morelli.
In questi corsi si parla molto anche di dolci «e qui dobbiamo superare qualche difficoltà perché la vecchia logica dei cibi ‘proibiti’, ormai superata, rimane nel fondo della nostra mente. Sappiamo tutti che proibire un alimento serve solo a valorizzarlo: ce lo sognamo di notte e, quando possibile, lo mangiamo senza fare calcoli. Meglio quindi affrontare il problema e imparare a stimare il peso e il reale contenuto in carboidrati dei dolci che spesso è inferiore a quello che si crede» spiega Ambra Morelli.
«Una pallina di gelato contiene 15 grammi di carboidrati», ricorda Elisa Del Forno, «e se mangio un dolce ricco di crema assumo tanti grassi ma non altrettanti zuccheri».


Valuta il contenuto in carboidrati.
Il terzo passo del calcolo dei carboidrati richiede un poco di memoria: bisogna conoscere la percentuale di carboidrati presenti in un alimento. Si possono memorizzare delle tabelle oppure aiutarsi con la memoria visiva. Nei suoi corsi Elisa Del Forno mostra delle tabelle che contengono ad esempio tutti gli alimenti composti al 50% di carboidrati o tutti quelli con circa il 20%. «Le etichette nutrizionali sono di grande aiuto, sia perché mostrano gli ingredienti, sia perché indicano la percentuale di carboidrati», ricorda Ambra Morelli, responsabile ANDID per la Regione Lombardia. Conoscendo il peso e la percentuale, calcolare la quantità di carboidrati in un piatto è facile: 70 grammi di pasta, se la pasta contiene all’80% carboidrati, fanno 56 grammi di carboidrati. «Esistono repertori e ausili di vario tipo, utili soprattutto quando si mangia fuori casa», continua Ambra Morelli, «ma questi supporti non sostituiscono il corso. È come con i conti: esistono le calcolatrici ma non per questo a scuola si è smesso di insegnare le tabelline».
«La cosa più difficile è calcolare in modo preciso il bolo di insulina quando andiamo al ristorante, per non parlare dei cibi etnici, perché bisogna stimare ‘a occhio’ ingredienti e porzioni. Per questo io consiglio di tenere un “Quaderno degli esperimenti” in cui annotare il piatto con le sue unità di insulina: in fondo impariamo sempre per prove ed errori!» suggerisce la dietista triestina. È importante notare che solo nella fase di apprendimento le persone effettuano, uno dopo l’altro, tutti i passaggi. «Dopo un po’ diviene naturale sapere che quel piatto ‘vale’ 20 o 35 o 42 grammi di carboidrati, è come se ci fosse scritto sopra», spiega Ambra Morelli. Il calcolo vero e proprio si fa solo davanti a piatti o bevande poco usuali.


Decidere la dose di insulina.
«L’ultimo passaggio consiste nel valutare la dose di insulina necessaria a ‘coprire’ l’alimento o l’insieme di alimenti che si sta per assumere. La chiave è il cosiddetto rapporto insulina/carboidrati che esprime quanti carboidrati sono ‘bruciati’ da una unità di insulina», spiega Vincenzo Nicastro. Il rapporto viene determinato dal diabetologo. «In genere aspettiamo che il paziente, avendo fatto un po’ di pratica, riesca a tenere le glicemie postprandiali in equilibrio. Poi calcoliamo il rapporto sia usando delle formule empiriche, con la cosidetta ‘regola del 500’, sia tenendo conto dei diari glicemici-alimentari che la persona ha tenuto nel frattempo», sottolinea Nicastro che nel suo Servizio organizza quattro corsi al mese per gruppi di 6-8 persone dedicati al conteggio dei carboidrati. C’è un’altra regola, ‘del 1800’, da saper applicare per calcolare la sensibilità insulinica, cioè di quanto scende la glicemia con un’unità di insulina. Il rapporto insulina carboidrati è generalmente vicino a 10, «ma persone magre e che fanno esercizio fisico intenso, possono ‘metabolizzare’ anche fino a 20 grammi di carboidrati con una unità di insulina e viceversa, quelle sovrappeso o sedentarie possono non superare i 6-7 grammi», ricorda Vincenzo Nicastro, «il rapporto può variare nell’arco della giornata o nel corso dell’anno. Anche il ciclo mestruale e, ovviamente, gli stati di stress psicologico e di malattia possono richiedere una maggior quota di insulina per metabolizzare la stessa quantità di carboidrati».


Esiste un altro livello di complessità.
«Se bevo o mangio qualcosa meno di tre-quattro ore dalla precedente iniezione di insulina, come può avvenire con un fuoripasto ad esempio o quando colazione e pranzo sono ravvicinate, devo calcolare anche la quantità residua di insulina ancora in circolazione dal bolo precedente, la cosiddetta insulin on board», sottolinea la Rabbone, «qui i calcoli si fanno difficili».
In passato i medici rinunciavano, nella maggior parte dei casi, ad approfondire questo aspetto. Oggi esistono dei calcolatori di bolo che effettuano questi calcoli automaticamente, tenendo presenti sia le variazioni che possono intervenire nel rapporto insulina/carboidrati, sia la quantità di insulina già presente, e aiutano anche a capire in che misura il calcolo ha avuto successo portando la glicemia postprandiale dentro ‘fasce’ definite come obiettivo dal diabetologo. Questo è importantissimo per i piccoli che si troverebbero in difficoltà ed è molto utile un po’ per tutti, sia chi usa i microinfusori sia chi preferisce la terapia multi-iniettiva», sottolinea Ivana Rabbone.


Una dieta corretta.
Insegnare il calcolo dei carboidrati è un po’ come insegnare a guidare. «È indubbio che il cosiddetto cho-counting regala autonomia alla persona, permettendole di mangiare qualsiasi, cosa tenendo le glicemie postprandiali sotto controllo», ricorda Ivana Rabbone, che segue bambini e ragazzi con diabete nella Struttura complessa a direzione universitaria di Diabetologia pediatrica dell’Ospedale infantile Regina Margherita di Torino, «dobbiamo quindi insistere perché questa libertà sia goduta restando nell’ambito di una dieta sana ed equilibrata, sia nelle porzioni, sia nelle proporzioni fra i vari nutrienti». In questo senso l’elemento principale dei corsi di conteggio dei carboidrati è proprio rafforzare l’idea di una sana e corretta alimentazione.


Nozioni da rinfrescare.
Una volta insegnato, il conteggio dei carboidrati diventa facile, «anche troppo facile», commenta Nicastro, «si finisce per associare direttamente gli alimenti alle relative dosi di insulina, il che è corretto, purché si sia sempre in grado di ripercorrere il procedimento di calcolo. Prima di tutto perché, nel tempo, il rapporto insulina carboidrati potrebbe essere cambiato, in secondo luogo perché, se si è dimenticata la ‘meccanica’ del calcolo, ci si trova in difficoltà davanti ad alimenti non abituali. per questo», conclude il diabetologo degli Ospedali Riuniti di Foggia, «dopo qualche anno, proponiamo a chi ha fatto il corso sul conteggio dei carboidrati di ‘tornare sui banchi’ per dare una rinfrescata alle proprie conoscenze e, visto che questi corsi sono anche un’occasione per stare insieme, tutti tornano volentieri»





La terza età. Quando comincia?


Riporto integralmente l'articolo apparso su http://www.modusonline.it/35/inchiesta.asp

Un terzo tempo della partita
La soglia della vecchiaia si è spostata di 20 anni creando generazioni di anziani in condizioni fisiche e intellettuali ottimali. La longevità aggiunge un terzo tempo nel quale le condizioni croniche non impediscono di esprimersi al meglio. Ma la società continua a vedere nell’anziano un problema e non una risorsa.


«La longevità è forse il più grande successo, la più bella eredità che lo scorso secolo ci ha lasciato». Domenico De Masi, sociologo, scrittore, docente ed ex preside di Scienze delle Comunicazioni alla Sapienza di Roma e visiting professor all’Università di San Paolo e di San Salvador in Brasile, è entusiasta. E ha ragione. In media, nei Paesi avanzati, l’attesa di vita è cresciuta di 12 anni dal 1950 al 2008. Oggi è di 77 anni e mezzo per i maschi e 84 per le femmine. L’inizio della vecchiaia – concordano gli esperti – coincide con i 70 anni per i maschi e 76 per le femmine e potrebbe spostarsi a 80 anni nel 2040. «Ogni tre-quattro anni possiamo dire che la popolazione guadagna, in media, un anno di vita», sottolinea Carlo La Vecchia, docente di Epidemiologia all’Università di Milano e, cosa più importante, è cresciuta in misura ancora maggiore l’attesa di vita ‘disability free’, priva cioè di condizioni e malattie in grado di ridurre sensibilmente l’autonomia dell’individuo. «In pratica oggi, nella maggior parte dei casi, si è ‘vecchi’ solo negli ultimi uno-due anni di vita», riprende De Masi che è nato nel 1938, «prima, quale che sia l’età, ci si trova quasi sempre in una condizione matura e in ottima o ragionevole padronanza delle proprie capacità fisiche e mentali». «Le persone anziane sono in condizioni di salute generale migliori rispetto a quando ho iniziato a fare il medico 30 anni fa», afferma Giulio Mariani, responsabile dell’Unità Operativa di Diabetologia dell’Ospedale San Carlo di Milano, «certo, hanno delle condizioni e delle patologie, ma molto meglio controllate rispetto ad una volta».


Carlo La Vecchia, docente di Epidemiologia all’Università di Milano e Capo del Dipartimento di Epidemiologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano.
Vecchi più tardi
«Oggi solo ai fini pensionistici si può parlare di ‘vecchiaia’ nella fascia di età che va dai 60 ai 70 anni», afferma Mauro Tettamanti, responsabile dell’Unità di Epidemiologia Geriatrica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano che precisa però: «questo vale solo per i Paesi avanzati e anche in questi esiste un 10-15% di persone in difficoltà già a questa età».
Il normale declino delle capacità fisiche è tranquillamente coperto dalle tecnologie che ci consentono di spostarci e comunicare senza fatica. Sul fronte delle capacità cognitive, «a 65 anni, più di nove persone su 10 continuano tranquillamente a svolgere la vita che svolgevano a 55», afferma Tettamanti, «e lo stesso vale per i settantenni, solo a 80 anni vediamo un degrado. In questa fascia di età otto persone su dieci mantengono le capacità di base (vestirsi, mangiare, lavarsi), ma 5 su 10 hanno problemi a svolgere attività complesse: maneggiare soldi, orientarsi, usare bene un telefonino».
Il vero timore dell’anziano oggi non è tanto la salute in sé «quanto la paura di non essere più autosufficiente, e della solitudine, due situazioni spesso collegate. Ecco, è proprio questo che fa sentire l’anziano ‘vecchio’. Mio padre» sottolinea Giulio Mariani, «che a 96 anni è perfettamente lucido, ha paura più che di ogni altra cosa di perdere la sua autonomia».


Giulio Mariani, responsabile dell’Unità Operativa di Diabetologia dell’Ospedale San Carlo di Milano.
Anziani che ‘danno’.
Se la vecchiaia si è spostata di molti anni più in là, la percentuale di vecchi sulla popolazione sta scendendo. Detto in altre parole: la popolazione europea diventa... sempre più giovane! «Quindi è una assurdità affermare che l’invecchiamento della popolazione è un problema. Avere decine di milioni di persone che a 70 o 80 anni sono in buona forma fisica e mentale è una risorsa. Anche un bambino lo capirebbe», sottolinea De Masi, «la nostra società si regge in buona parte, già oggi, sugli ultrasessantacinquenni ma potrebbe approfittare molto meglio delle loro capacità».
«A tutti gli effetti la maggioranza degli anziani sono soggetti attivi e non passivi: ‘danno’ alla società molto più di quanto non ‘prendano’», conferma Giovanni Lamura ricercatore allo European Centre for Social Welfare Policy and Research dell’ONU di Vienna.
In Italia, dall’indagine annuale svolta dal Censis, emerge ad esempio che il 40% degli anziani continua a risparmiare, sempre il 40% degli anziani fornisce un aiuto economico alla famiglia dei figli, mentre solo il 25% lo riceve. Questo anche perché, in Italia, il 78% degli anziani (il 90% nei piccoli centri) è proprietario dell’immobile in cui abita e spesso anche di un altro immobile. È noto ad esempio – venne rilevato anche nella relazione del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi – che il boom immobiliare del 2004-2007 è stato finanziato in misura consistente da trasferimenti di denaro fra le generazioni. Insomma l’anziano, favorito anche da una fase di continuo accrescimento nel valore delle sue proprietà, è più spesso il pilastro economico della famiglia.
A questo si aggiunge il ruolo degli anziani nella gestione della famiglia dei figli. «Oggi le aziende, soprattutto nel terziario avanzato, assumono tardi e mandano in pensione presto», ricorda Andrea Principi, economista presso l’Istituto Nazionale per la Longevità attiva e la non autosufficienza dell’Inrca di Ancona, «in compenso nella fascia di età centrale l’utilizzo della forza lavoro è massimo. Ma in quella fascia di età, diciamo fra i 30 e i 50 anni, oggi ci si sposa e si fanno figli; in un contesto quasi privo di supporti l’anziano diventa la condizione necessaria per una coppia che vuole avere figli». In una società in cui spesso entrambi i genitori sono costretti a lavorare, il ruolo dei nonni che si occupano dei nipoti è spesso fondamentale e a questo si aggiunge fra i pensionati più giovani l'assistenza ai genitori 'grandi anziani' in condizioni di fragilità.


Si diventa vecchi sempre più tardi. Ma questo è visto come un problema.


Bruno Giannolo, cardiochirurgo all’Ospedale Monaldi di Napoli.
Il dominio dei fattori di rischio.

Ma come si è arrivati a questa situazione, come si è aperta questa finestra che dona alle popolazioni europee 20 anni di vita in buona salute in più rispetto a solo 50 anni fa?
In primo luogo l’aumento della durata e della qualità della terza età si deve a miglioramenti per così dire ambientali. In una prima fase sono migliorate le condizioni igieniche delle abitazioni (acqua corrente e fognature), in secondo luogo sono migliorate le condizioni di lavoro: mansioni sempre meno faticose e usuranti e riduzione dell’inquinamento nei luoghi di lavoro. «Quando l’esposizione ai fattori di rischio ‘industriali’ non era controllata, i tumori ‘occupazionali’ erano presenti nel 2-3% della popolazione», afferma Carlo La Vecchia, Capo del Dipartimento di Epidemiologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, «proibite le ammine aromatiche e l’amianto, è aumentata in generale l’attenzione a questi aspetti e possiamo dire che oggi questa è divenuta una causa residuale. Lo stesso discorso vale per i tumori da inquinamento che hanno raggiunto un picco negli anni ’60, quando rappresentavano una quota significativa dei tumori al polmone, ma ora è residuale. Soprattutto in questa ultima generazione abbiamo iniziato a vedere i miglioramenti dovuti alla riduzione del fumo».


Mauro Tettamanti, responsabile dell’Unità di Epidemiologia Geriatrica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano.


Salvi in ospedale.
I risultati finora più significativi però, sono stati ottenuti in ospedale. Delle quattro ‘armi’ utilizzate nella lotta per la longevità, due hanno dispiegato i loro effetti: si tratta della riorganizzazione degli interventi di emergenza e del miglioramento nelle tecniche di assistenza in unità coronarica, delle tecniche chirurgiche e di emodinamica interventistica.
La gestione ospedaliera dell’evento acuto cardiovascolare – infarto o ictus – è uno dei volani del successo ottenuto in termini di longevità. Trent’anni fa l’infarto era spesso mortale e comunque invalidante, oggi è un evento nella vita. «Abbiamo avuto un netto miglioramento delle tecniche di terapia intensiva e di riabilitazione, il che ha permesso di ridurre drasticamente la mortalità nelle Unità di Terapia Intensiva e ottenere risultati migliori in termini di qualità e durata della vita dopo un infarto e un ictus», afferma Bruno Giannolo, cardiochirurgo all’Ospedale Monaldi di Napoli, un medico che ha al suo attivo circa 200 prelievi di cuore a scopo di trapianto, eseguendone in prima persona circa 80 ». I problemi di ritmo cardiaco sono stati in gran parte risolti con i pace-maker e i defribillatori, impiantabili senza aprire il torace.
L’evoluzione più visibile è quella degli interventi di angioplastica coronarica effettuati agendo attraverso le arterie e senza ‘aprire’ il paziente: oggi i cardiologi interventisti risolvono quadri di malattia coronarica ostruttiva che fino a ieri richiedevano interventi di by-pass. «Anche la stenosi aortica calcifica severa può essere trattata oggi in questo modo in un gruppo selezionato di pazienti. Noi cardiochirurghi, però, non rimaniamo certo senza lavoro perché oggi possiamo operare persone per le quali ieri lo stress dell’intervento poteva risultare fatale».
In cardiochirurgia, infatti, la sfida attuale è quella delle comorbidità. «Di rado la persona di 70-80 anni ha ‘solo’ un problema di cuore. Spesso ha anche altre patologie: il diabete, la bronchite cronica ostruttiva, una ridotta funzionalità renale, ecc. Ieri queste condizioni innalzavano in modo significativo il rischio chirurgico o addirittura sconsigliavano l’intervento: oggi possiamo intervenire con buone probabilità di successo grazie alle nuove tecniche anestesiologiche, chirurgiche e di gestione del post-intervento. Oggi operiamo al cuore – e parlo di interventi ‘pesanti’, pazienti di 70-80 anni – con tassi di successo del 90%. Possiamo poi operare patologie acute, che ieri erano gravate da un alto indice di mortalità, come la dissecazione dell’aorta o il difetto interventricolare postinfartuale, con risultati sempre più soddisfacenti».
Giannolo fa parte di un team di punta ma l’aspetto più interessante è che in questi anni si è visto un allineamento dei Centri di Cardiochirurgia ai livelli più alti. «Se ieri ci poteva essere una forte differenza fra gli ospedali più avanzati e gli altri, oggi tutte le cardiochirurgie italiane adottano le tecniche migliori e seguono linee guida che coprono sia l’atto chirurgico vero e proprio sia la gestione di tutto il processo pre e post intervento», nota Giannolo. Fanno eccezione solo i trapianti di cuore effettuati in pochi centri in Italia: noi al Monaldi di Napoli ne facciamo 30-40 all’anno su 200-300 eseguiti in tutta Italia. Il risultato è che oggi l’intervento al cuore, soprattutto se di elezione (programmato su un paziente a rischio ma in condizioni non acute) «è perfino sottovalutato dal paziente: parlo con persone che vivono l’intervento cui stanno per essere sottoposti come fosse una ‘passeggiata’», esclama Giannolo.


Terapie farmacologiche a vita.
«Curiamo di più e curiamo meglio le persone, abbiamo maggiori capacità diagnostiche, riusciamo a guarire o a ‘fermare’, rendendole croniche, patologie che ieri erano acute e gravi, assistiamo oggi a una diminuzione delle malattie cardiovascolari e metaboliche, questo lo dobbiamo anche alla diffusione di terapie preventive capaci di tenere sotto controllo i fattori di rischio», sottolinea Giulio Mariani, «anti aggreganti, anti ipertensivi, farmaci che tengono sotto controllo colesterolo e trigliceridi e, ovviamente, farmaci per migliorare il profilo glicemico». Certo, visto che i fattori di rischio sono diversi: pressione arteriosa, coagulabilità del sangue, eccesso di colesterolo LDL e di trigliceridi, e che spesso la stessa persona ne deve correggere diversi, questo significa assumere tre, quattro, cinque principi attivi ogni giorno, spesso in più pastiglie, sostanzialmente per tutta la vita. E questo non per calmare un dolore o per guarire da un episodio acuto ma solo per scongiurare un pericolo. Se l’utilità di questi farmaci è nota, «proporre la terapia per una condizione cronica richiede un approccio terapeutico completamente diverso: prescrivere è un attimo, basta compilare una ricetta, ma è difficile convincere il paziente a seguire la cura proposta», ricorda Giulio Mariani, «occorre convincerlo, motivarlo a proseguire, concordare con lui i tempi e i modi della terapia». Il medico non può più contare sull’autorità del suo status come una volta, «deve acquisire altre capacità, conoscere e praticare l’educazione terapeutica. In questo senso la Diabetologia italiana è sicuramente all’avanguardia».





Andrea Principi, sociologo presso l’Istituto Nazionale per la Longevità Attiva e la Non Autosufficienza dell’Inrca di Ancona.
La vita è una scelta.
Se le terapie farmacologiche preventive sono divenute di largo uso negli anni ’90, solo in questo decennio la popolazione ‘sana’ ha iniziato a modificare lo stile di vita nell’ottica di prevenire il rischio cardiovascolare ed è recentissima l’attenzione al ruolo degli stili di vita nella prevenzione dei tumori. «Agendo sullo stile di vita possiamo evitare il 40% delle morti per tumore», afferma Carlo La Vecchia, Capo del Dipartimento di Epidemiologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano. «Prima di tutto riducendo il fumo che da solo è la causa di un quarto delle morti ‘prevenibili’: i risultati già si vedono e si vedranno in prospettiva. Fra 50 anni solo una persona su 10 fumerà».
È recente invece l’attenzione all’alimentazione come fattore di prevenzione dei tumori (molte fibre e poca carne rossa sono correlati a un minor numero di tumori in tutto il tratto gastrointestinale) mentre sta muovendo i primi passi l’attenzione all’insulinoresistenza e all’obesità anche in una ottica di prevenzione oncologica.
«Per contrastare patologie a carico del cuore e dei vasi sanguigni è buona norma adottare uno stile alimentare sano ed equilibrato, affiancato da una regolare attività fisica», ribadisce il primario di diabetologia del San Carlo, che sottolinea come l’interesse della classe medica sia oggi concentrato sulla prevenzione della malattia metabolica: «si tratta di una patologia subdola che, se non diagnosticata e affrontata per tempo, rischia di minare dalle fondamenta il sistema cardiovascolare». Sulla malattia metabolica e in generale su quasi tutti i fattori di rischio cardiovascolare, l’effetto delle modifiche degli stili di vita è pari o superiore a quello delle terapie farmacologiche. Un esempio fra tutti: è provato come una regolare attività fisica, anche solo mezz’ora di camminata a passo svelto ogni giorno, abbassi la probabilità di sviluppare diabete e ipertensione ma diminuisca anche il rischio di sviluppare tumore e la gravità della prognosi e riduca il rischio di cadute in persone che soffrono di osteoporosi, ottenendo effetti sull’umore e sul mantenimento della capacità di memoria e cognitive almeno pari a quelli dei migliori farmaci.
La Medicina però non può fare tutto. «Dobbiamo affrontare l’ambito dei fattori di rischio per così dire socio-ambientali: la povertà, l’urbanizzazione, la marginalità sociale. La prevenzione non può agire solo sui fattori di rischio individuali, ma deve affrontare anche quelli più ampi con politiche di intervento di tipo socio-sanitario», ammonisce Mariani.


Giovanni Lamura, ricercatore allo European Centre for Social Welfare Policy and Research dell’ONU di Vienna.
Un terzo tempo tutto da giocare.
Lo scenario più probabile per un cinquantenne è quello di avere davanti a sé almeno 25 anni, probabilmente anche 30, di vita in buona salute, un periodo di tempo almeno uguale a quello che ha dedicato alla sua formazione e alla costruzione di una carriera e di una famiglia. «L’aumento continuo della speranza di vita registrato negli ultimi decenni è un fenomeno epocale che meriterebbe di essere affrontato con molta più attenzione», conferma Domenico De Masi «chi nasce oggi ha potenzialmente di fronte a sé una vita suddivisa in tre fasce temporali praticamente equivalenti: quella della formazione di base, che si prolungherà sempre più fino a sfiorare i trent’anni, quella della vita attiva e quella della terza età, che potrebbe protrarsi anch’essa per tre decenni e, sempre più frequentemente, verrà trascorsa in buone condizioni fisiche». Non si tratta di ‘cancellare le pensioni’ ma di riportarle al loro significato originale. Quando Otto von Bismarck ‘inventò’ il welfare state, il diritto alla pensione veniva acquisito a partire dal 65° anno di età. A quel tempo l’attesa di vita media era di 45 anni. Mantenendo lo stesso principio oggi l’età di pensionamento dovrebbe essere di 98 anni.
In realtà i sistemi pensionistici disegnati negli anni ’60 e ’70 non solo mantennero ma addirittura anticiparono l’età pensionabile portandola, in molti Paesi, a 60 anni. «Il che era corretto quando si parlava di persone che avevano iniziato a lavorare subito dopo la scuola dell’obbligo compiendo mansioni faticose e usuranti in ambienti malsani», ricorda De Masi, «oggi si inizia a lavorare più tardi, troppo tardi, in ambienti assolutamente normali e con mansioni affatto faticose». Si arriva alla pensione quindi in piena salute, «soprattutto se si considera che buona parte delle mansioni in una società avanzata come la nostra, sono ‘intellettuali’, come si diceva una volta, o ‘creative’, come preferisco affermare io. A 70 anni e a 80 siamo perfettamente in grado di svolgerle al meglio. Se l’attività davvero a valore aggiunto oggi è quello che io definisco l’ozio creativo, è assurdo concentrarla nella fase centrale della vita, quel periodo fra 30 e 50 anni nel quale le persone – e non solo le donne – dovrebbero concentrarsi sul loro ruolo di genitori».
De Masi è favorevole a una riduzione dell’intensità e a un’estensione della vita attiva. «Nella maggior parte delle mansioni venti ore a settimana sono più che sufficienti», afferma, «e questo ritmo è compatibile sia con le esigenze del trentenne sia con quelle del genitore e dell’anziano o ex anziano di 70 anni e più».


Quasi un terzo della vita... in panchina.
In effetti non è pensabile che una società che ha realizzato il suo maggior risultato mantenendo sana e attiva una generazione di anziani non vecchi, lasci inutilizzato questo tesoro non sfruttandone le potenzialità, accettandone i costi pensionistici, e soprattutto i costi sociali e sanitari legati alla forzata inattività. «Il welfare che oggi cerchiamo di riformare è una costruzione creata trenta anni fa, pensando agli anziani di 50 anni fa», riassume Andrea Principi, economista esperto di welfare state, «che avevano alle spalle le privazioni della guerra, lavori usuranti e faticosi, quasi sempre avari di soddisfazioni. Ancora oggi non solo l’età minima al pensionamento, ma l’intero quadro giuridico, legale e culturale è rimasto legato a un anziano che non c'è più o quasi».
L’adeguamento dell’età pensionistica all’attesa di vita rischia di essere l’unica misura di ‘age management’ presa da molti Paesi. Limitarsi a spostare l’asticella mantenendo una cesura secca fra mondo del lavoro e pensione sarebbe sbagliato. Il ricorso a forme di part time fortemente incentivate dallo stato permetterebbe di quadrare il cerchio. Il lavoratore – a parità di contributo reale dato – peserebbe meno sull’azienda. L’anziano avrebbe la possibilità di affiancare al lavoro altri interessi o di riportare il peso del lavoro entro limiti che ritiene gestibili. La domanda non è “quanto ci costa l’anziano”, ma “di cosa ha davvero bisogno e che cosa può offrire e vuole offrire alla collettività”. Le risposte a queste domande possono essere sorprendenti.









A pieni polmoni.

Riporto integralmente l'articolo apparso su http://www.modusonline.it/35/conoscere.asp


A pieni polmoni


Sergio Harari, direttore dell’Unità Operativa di Pneumologia e Terapia semi-intensiva dell’Ospedale San Giuseppe di Milano.
Si chiama Bpco ed è poco meno frequente del diabete, soprattutto fra le persone con oltre 60 anni. Ha una causa precisa e rimovibile: il fumo, e una terapia che si sta arricchendo di farmaci e presidi.


Come il diabete, è estremamente diffusa (3,5 milioni di persone in Italia) è diagnosticata in ritardo e interessa soprattutto le persone sopra i 60 anni.
«È una malattia cronica, che possiamo cercare di controllare e rallentare ma non di guarire, ed è la possibile evoluzione di tre tipi di malattie: l’enfisema, la bronchite cronica, e meno spesso, dell’asma», spiega Sergio Harari, direttore dell’Unità Operativa di Pneumologia e Terapia semi-intensiva dell’Ospedale San Giuseppe di Milano.
Le somiglianze però finiscono qui, perché la Bronco-pneumopatia cronica ostruttiva o Bpco (Copd in sigla inglese) non è una malattia metabolica e, a differenza del diabete, ha una causa ben conosciuta: il fumo.
«Più del 70% delle persone in cura per Bronco-pneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) è rappresentato da fumatori o ex fumatori alla diagnosi. Soprattutto nei Paesi più avanzati, dove l’inquinamento domestico o ambientale è ormai ridotto», afferma Vincenzo Bocchino, responsabile della Unità di Terapia sub-intensiva respiratoria nella U.O.C. di Pneumologia dell’Ospedale Monaldi di Napoli. «Il restante 30% circa dei casi è dovuto a una particolare sensibilità ad agenti inquinanti o al fumo passivo. Ma il dato da tenere bene a mente è che la Bpco è l’esito più probabile, più del tumore al polmone, per chi fuma».


Una diagnosi precoce è importantissima.
«Eppure i primi stadi della Bpco sono spesso sottovalutati», spiega Vincenzo Bocchino, «i sintomi sono due: la dispnea, un ‘fiatone’ insomma, che interviene ogni volta che si fa uno sforzo; ancora più specifico un attacco di tosse, soprattutto al mattino, con o senza catarro. Un fumatore o ex fumatore che rilevi anche solo uno di questi due sintomi in modo non episodico farà bene a parlarne subito con il suo medico, senza pensare che si tratti di una normale ‘tosse del fumatore’ o di una ‘bronchitina’ o di ‘un poco di asma’». In alcuni pazienti si nota un respiro sibilante, erroneamente interpretato come asma, o un’espirazione a labbra socchiuse a ‘soffio’. Intervenire per tempo può evitare che l’infiammazione si cronicizzi e diventi ostruttiva con un’ipersecrezione di catarro. Se non si interviene la dispnea si manifesta davanti a sforzi via via minori.


Il test
Al pari del diabete anche la Bpco ha un test ‘principe’: si effettua con un apparecchio chiamato spirometro riempiendo al massimo i polmoni e soffiando con forza l’aria inspirata in un tubo. La spirometria viene eseguita presso reparti specializzati e permette di misurare, principalmente, la Capacità Vitale Forzata (FVC) e il Volume Espiratorio Forzato nel primo secondo (VEMS) e, su questa base, stadiare la gravità della Bpco (lieve, moderata, grave, molto grave). Altri esami come la radiografia e/o la TC toracica, il test del transfer del CO (TCO), l’emogasanalisi arteriosa per valutare la quota di ossigeno e di anidride carbonica nel sangue, permettono di perfezionare la diagnosi e impostare la terapia. La terapia parte da un elemento fondamentale: smettere immediatamente di fumare. «altrimenti è davvero inutile andare avanti», commenta Vincenzo Bocchino.
In secondo luogo si tratta di «insegnare al paziente a respirare». Tutti respiriamo male e aiutando le persone a utilizzare i polmoni nel modo più corretto «si ottengono risultati molto importanti», commenta Harari. Il secondo caposaldo è l’esercizio fisico «che va prescritto adattandolo alle condizioni della persona», ricorda. È interessante notare come si stia diffondendo presso le persone con Bpco una sorta di ‘autocontrollo’. «Con un saturimetro portatile, un apparecchio ormai molto diffuso di dimensioni e costi molto limitati, la persona può valutare la concentrazione di ossigeno nel sangue e valutare se lo sforzo che sta facendo è adeguato o rischia di essere eccessivo per le sue capacità polmonari», nota Harari.
Anche perdere peso è utile, non da ultimo perché la ‘pancia’, tenendo alto il diaframma, impedisce di utilizzare da seduti l’intera capacità polmonare.



Vincenzo Bocchino, responsabile dell’Unità di Terapia sub-intensiva respiratoria nella U.O.C. di Pneumologia dell’Ospedale Monaldi di Napoli.


I farmaci
La parte farmacologica della terapia ha previsto fino ad ora due tipi di farmaci: i beta agonisti come broncodilatatori (da poco sono sul mercato farmaci che hanno una durata di 24 ore) e i corticosteroidi locali (inalati con i cosiddetti ‘spruzzini’) per ridurre l’infiammazione. «A questi capisaldi della terapia si sono aggiunti gli alfalitici, per le fasi più severe di malattia e, recentemente, gli inibitori delle fosfodiesterasi IV, utili nelle fasi medio-severe della malattia, soprattutto per ridurre il numero delle riacutizzazioni», nota Sergio Harari.
Gli obiettivi principali della terapia della Bpco, infatti, sono quelli di migliorare la sintomatologia, la tolleranza allo sforzo, lo stato di salute e, importante, ridurre il numero degli episodi acuti, le riacutizzazioni, indotti da malattie concomitanti, da sforzi o dall’incontro con sostanze irritanti per i polmoni. «Le riacutizzazioni, che spesso richiedono una breve ospedalizzazione in unità sub-intensive come quella che dirigo, non solo comportano un rischio in sé, ma coincidono con una perdita di funzionalità definitiva. Insomma sono uno ‘scalino’ che, una volta sceso, non si recupera più», commenta Vincenzo Bocchino.

Nelle fasi avanzate la Bpco può divenire molto seria.
La persona va in affanno davanti a qualunque sforzo: alzarsi dalla sedia o fare qualche passo a piedi. Nel suo sangue circola poco ossigeno e troppa anidride carbonica e il ventricolo destro del cuore, a seguito del maggiore sforzo richiesto, si ingrossa portando a un possibile scompenso della sua funzionalità.
In questa fase è importantissimo ricorrere all’ossigenoterapia e, nei casi più gravi, alla ventilazione non invasiva. Ieri parlare di ‘bombola di ossigeno’ era sinonimo di morte imminente, oggi con la ‘bombola’ si vive molto a lungo. «Da tempo la tecnologia ha fatto grandi passi avanti ed è normale che una persona con Bpco in fase avanzata ma controllata conviva per anni con il suo ossigeno a casa, dapprima utilizzandolo per alcune ore, poi anche per 18 ore al giorno, svolgendo una vita relativamente sedentaria ma accettabile e potendo perfino fare passeggiate fuori casa. È da tempo provato che l’ossigenoterapia ha una funzione decisiva nella durata – e non solo nella qualità – della vita nella persona con Bpco», sottolinea Harari.
«Visto che il decorso della Bpco è graduale, il nostro obiettivo è fare in modo che la perdita di capacità polmonare accompagni il normale processo di riduzione delle esigenze, tipico della terza età. Diventando anziani ci si muove di meno e in modo più cauto, si rifuggono volentieri gli sforzi», commenta lo pneumologo dell’Ospedale Monaldi.
Molte persone con Bpco hanno il diabete e molte persone con diabete hanno anche la Bpco, più per una questione statistica che fisiologica.


La persona con diabete corre un rischio cardiovascolare per l’occlusione delle arterie.
Questo si può sovrapporre alle difficoltà respiratorie causate dalla Bpco. Esiste anche una sovrapposizione negativa: i farmaci corticosteroidi utilizzati nella terapia della Bpco possono innalzare la glicemia, «anche se nell’utilizzo per inalazione questo effetto è molto ridotto», conclude Bocchino, che ha un Dottorato di ricerca in Fisiopatologia Respiratoria Sperimentale conseguito presso l’Università di Parma, «lo pneumologo può cercare, quando possibile, di ridurre il ricorso ai corticosteroidi che rimangono però un farmaco irrinunciabile, soprattutto in certe fasi della malattia».